Woody il sesso, l'America

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    Il regista parla di "Celebrity", il suo ultimo film già nelle sale italiane. Ancora la storia di una coppia in crisi, ma anche una satira feroce sulla celebrità e il suo mondo. Con un cast di grandi star che interpretano se stesse

Woody AllenPuntuale come un orologio svizzero il prolifico Alien ha appena finito di girare il suo ennesimo film. Deve solo montarlo. Dunque per ora è solo un numero: non l'ha ancora battezzato. Si sa soltanto che è interpretato da Sean Penn, Uma Thurman e Amandha Morton e che è la storia di un musicista degli anni '30 diviso tra due donne ("Accordi e Disaccordi"). Però, il fatto di aver concluso le riprese ha permesso all'autore di non mancare al romantico appuntamento con il Natale veneziano che ha coinciso quest'anno non solo con l'anniversario del suo matrimonio con Soon-Yi, ma anche con l'uscita di "Celebrity" che alla Mostra di Venezia non aveva potuto accompagnare.
Film che è già entrato nella storia del cinema per via di quella maldestra, esilarante simulazione di sesso orale in cui si lancia Judy Davis.

Ma è stato Clinton che si è ispirato a lei o viceversa?
«Pura coincidenza. Il film l'abbiamo fatto prima. Sono sicuro però che, in questo senso, il Presidente non ha bisogno d'ispirazione».

Fellatio a parte, si cita un pene di 8 piani, c'è una top model "polimorficamente perversa". A giudicare dai temi che affronta ultimamente, si ha l'impressione che anche lei sia più attratto dal sesso...
«Coincidenza anche questa».

Quali donne le piacciono di più?
«Quelle non bellicose. Non le sopporto quando imitano i maschi: sembrano quei travestiti che copiano le femmine enfatizzandone i lati peggiori».

"Celebrity" segue il diverso percorso di un'ennesima cappio che si divide. Crede che possa esistere un formula per salvare un matrimonio?
«No, è solo fortuna. È come vincere al Superenalotto. Ecco perché la maggior parte dei matrimoni sono fallimentari o il risultato di molti compromessi».

Quel mega Help scritto nel cielo che apre il film a chi è rivolto?
«Alla cultura. È il mio grido d'allarme. Io non sono così intelligente da capire come    si può rimediare, però sono sicuro che abbiamo preso una strada sbagliata spettacolarizzando tutto: il mio è un paese dove basta uccidere o fare fellatio per diventare famosi. La storia del nostro Presidente ci ha trasformati in barzelletta globale. E la celebrità è in prevalenza fasulla, raramente legittima, dovuta a qualità artistiche, come, ad esempio, si merita una Streisand. Invece è più famosa la Lewinsky passata di botto da uno stato di fellatria a quello di star. E si è talmente convinta di ciò che è andata a dire in giro ad una festa che io l'avrei chiamata per un film. Se fosse giusta per un ruolo, forse, ma non è andata così. Se l'è inventato».

In "Celebrity" l'unica persona che si stupisce per tutto questo delirio è la mamma italiana di Joe Mantengna...
«Perché appartiene a una diversa generazione: è spontanea, sensibile, non ancora annientata, contaminata dalle stupidaggini della Tv che hanno ormai rimbecillito tutti. Noi abbiamo un livello di alfabetizzazione bassissimo. Certo, la nostra si dice sia la più grande democrazia del mondo, ma, se studiamo le abitudini degli elettori, vediamo che, o non vanno a votare, o lo fanno seguendo i messaggi Tv. Si è ristretta l'esperienza e questo ha avuto un effetto devastante sulla cultura».

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Perché' ha scelto Branagh?
«Inizialmente cercavo un americano perché io scrivo in questa lingua, ma volevo un attore sensibile, fisicamente normale, non bellissimo e lui era il più giusto. Oltre al fatto che riesce ad esprimersi con un perfetto accento americano. E poi, essendo anche regista, mi ha facilitato nel mio compito. E stato piacevole il rapporto con tutti. La Griffith, Winona Ryder, Judy Davis, con cui è già la quarta volta che lavoro, sono magnifiche professioniste».

E Leonardo DiCaprio?
«E bravissimo. Diventerà come De Niro o Al Pacino. Quando l'ho scelto non era ancora uscito il "Titanic". Lo straordinario successo che ha ottenuto mi ha reso felice. Ho pensato: porterà un sacco d'incassi anche al mio film. Ma non è andata così».

Come va con 1e nevrosi?
«Evito, come sempre, i tunnel e, se devo viaggiare, lo faccio solo con un aereo privato. Vivo per più di 10 mesi all'anno in un raggio piuttosto limitato di Manhattan dove ho tutto quel che cerco: spettacoli, ristoranti librerie. Certo, circoscrivo la vita, come fanno i nevrotici, e non ne sono orgoglioso, ma tutto sommato mi è andata fin troppo bene, considerando che sono stato anche cacciato da scuola e non so proprio dove sarei finito se non avessi avuto questo talento».

Che legittimamente le ha dato celebrità. Come ci convive?
«Piuttosto bene. L'unico handicap è la mancanza di privacy. Ma non è drammatico. Sono troppi i vantaggi e penso proprio che ora farei molta fatica a rinunciarci».

Le dispiace non aver mai vinto Oscar?
«No. il mio vero godimento è fare film. Questo mi basta. Una volta finiti se hanno successo o no per me è irrilevante. E non m'importa se dicono che sono un genio o un imbecille, l'unica cosa che mi preme è mettermi a lavorare al prossimo film».

Sali


Tratto da FilmTv anno 7 n°1 - Pubblicazione amatoriale, non si intende violare nessun copyright