Woody Allen

Filmografia  Filmografia     
Celebrity  Celebrity       
     

Woody AllenAll’età di sessantaquattro anni, anche Woody Allen deve iniziare a fare i conti con il tempo che passa. Il 1999 segnerà, infatti, i suoi trenta anni da regista con circa ventinove film al suo attivo e un impressionante numero di candidature e vittorie ai premi Oscar. Innumerevoli sono gli attori famosi che hanno lavorato con lui, infinito il numero dei suoi estimatori in America e in Europa. Ma Woody sembra anche stanco. Dopo molte donne, tre mogli, i problemi giudiziari che sappiamo, i libri, le apparizioni anche solo vocali in film come quello della Dreamworks Z, la formica, uno dei più grandi registi di sempre sembra perdere i colpi. I suoi lavori, le sue continue apparizioni a Roma, a Parigi e in giro per il mondo danno un’immagine frenetica di un uomo che in un quarto di secolo ha cambiato più volte la sua immagine, pur rimanendo coerente con se stesso. E adesso che addirittura va in tournée con la sua band di jazzisti sfruttando il suo talento di attore, il regista di pellicole come "Manhattan", "Ombre e nebbia", "Crimini e misfatti", "Radio Days", "Hannah e le sue sorelle", "Un’altra donna" si lascia andare a discutibili dissertazioni sulla celebrità e il divismo con il suo "Celebrity", in cui il suo ultimo alter ego sullo schermo ha le sembianze di Kenneth Branagh. Un genio come pochi, che speriamo ci smentisca e ci sorprenda ancora con il suo prossimo film, interpretato da Sean Penn e Uma Thurman e ambientato nei suoi adorati anni Trenta.

Mr. Allen, lei ha sempre alternato film allegri a pellicole tristi. Il tono complessivo degli ultimi film è abbastanza leggero. Come mai?

«È solo una coincidenza. Quando qualche anno fa ho girato "Misterioso omicidio a Manhattan", ero appena venuto fuori dal periodo più nero della mia vita privata. Sono felice in questo momento, ma il mio prossimo film dopo quello che ho appena finito di girare con Uma Thurman potrebbe essere una tragedia».

Eppure i personaggi che lei ha interpretato di persona e i suoi alter ego come Kenneth Branagh e John Cusack sono abbastanza tristi e sfortunati. Non è che lei si comporta come ne Il ritratto di Dorian Gray, facendo sì che sia solo il suo simulacro a subire le angherie del tempo, mentre lei in realtà come regista e come uomo vive una vita molto fortunata?
«Ho sempre cercato di evitare qualsiasi correlazione tra la mia vita e il mio lavoro. Quello che provo a fare è creare situazioni che interessino il pubblico per farlo venire al cinema a vedere i miei film. Sullo schermo sono i personaggi che vivono dei conflitti o dei problemi a risultare sempre più interessanti. Sono stato molto fortunato e felice negli ultimi anni, ma non credo che raccontare la vita di un uomo sereno sarebbe importante. Non ci sarebbe nessuna storia da raccontare. Non voglio fare paragoni pretenziosi, ma se lei desse uno sguardo all’opera dei più importanti scrittori teatrali del nostro tempo come Eugene O’Neil o Tennesse Williams noterebbe che questi autori hanno raccontato storie di uomini addolorati e in crisi che vivono situazioni drammatiche. Per questo mi diverto a creare problematiche particolari da fare affrontare ai miei personaggi, perché credo che siano solo queste a rendere davvero interessanti un film».

È stato accusato di occuparsi un po’ troppo nelle sue pellicole dei problemi della borghesia bianca newyorkese. Trova fondata questa critica?
«Se è per questo la comunità ebraica mi accusa di parlare male degli ebrei e quella di colore stigmatizza il fatto che io non inserisco mai attori neri nelle mie pellicole... Io abito in una città ed in un certo ambiente ricco. Quello che mi diverte è raccontare quello che vedo. Tutti pensano che "i ricchi" non abbiano problemi, quando, invece, in ogni mio film dimostro come le persone abbienti hanno i problemi di tutti quando vengono a scontrarsi con le questioni di cuore o psicologiche».

In Celebrity i personaggi da lei creati di problemi ne hanno certamente tanti. La cosa peggiore è che lei dà un’immagine della nostra società dove tutti sembriamo completamente rimbecilliti...
«È interessante questo aspetto che avete sottolineato. Naturalmente io posso parlare solo per gli Stati Uniti ed è comunque qui che io lancio un grido d’allarme per quello che è successo alla cultura americana. Ormai siamo immersi nel concetto di celebrità e spettacolo al punto che non esiste più una netta demarcazione tra il mondo dello spettacolo da una parte e il mondo reale dall’altra. Tutti possono diventare celebrità cui chiedere un autografo: politici, giornalisti, impiegati, assassini, ostaggi diventano tutti parte di un gigantesco spettacolo senza fine. Guardate cosa è successo con un affare privato del nostro presidente, con tutto il mondo che ci ride dietro, date un’occhiata a gente che uccide la moglie o i figli e che finisce in televisione in uno show televisivo. Perché tutti gli avvocati del processo O.J. Simpson hanno avuto un proprio programma televisivo? È pazzesco, eppure è così e io francamente non so cosa si possa fare per cambiare questo stato di cose. Nel mio film dico che la cultura ha preso una strada sbagliata, ma non sono sufficientemente saggio da capire perché è successo tutto questo e nemmeno cosa fare per rimediare. "Celebrity" è il mio personalissimo appello per iniziare a cambiare questo stato di cose».

A proposito di celebrità, cosa accadrebbe se a lei per magia fosse tolta la sua?
«Qualche volta me lo sono chiesto anch’io. Essere celebri consente di ottenere quello che le persone normali non hanno e gli elementi positivi superano di gran lunga quelli negativi. È vero, devi rinunciare totalmente alla tua privacy, ma è anche vero che se telefoni per avere due biglietti di uno spettacolo teatrale esaurito da mesi, te li trovano subito, se vuoi assistere a una partita di baseball ti danno i posti migliori, se ti senti male la domenica il tuo medico corre come una lepre per curarti, quando la gente comune fa difficoltà a trovare qualcuno che venga a visitarti nei giorni festivi. So che è una debolezza, ma sono famoso da più di trenta anni e non potrei più farne a meno. Mi mancherebbe non essere più celebre e non ottenere queste condizioni di vantaggio».

Perché ha deciso di girare "Celebrity" in bianco e nero?
«La maggior parte dei miei film preferiti è in bianco e nero e trovo che questo tipo di fotografia emani un fascino che quella a colori non possiede. Ho fatto cinque o sei pellicole in bianco e nero e mi piacerebbe vedere più registi cimentarsi con la lavorazione imposta dall’assenza del colore».

Nel film è presente Leonardo DiCaprio. Perché lo ha scelto?
«Avevo visto Leonardo ne La stanza di Marvin dove recitava anche la mia amica Diane Keaton, che mi ha consigliato di vedere Buon compleanno Mr. Grape. Quando abbiamo scelto gli attori per Celebrity è venuto fuori anche il suo nome e io lo ho scelto subito, perché credo sia non solo un ottimo attore, ma anche un interprete che come De Niro e Al Pacino ha un futuro radioso dinanzi a sé e anche una grande carriera. Quando poi c’è stato il successo di Titanic mi sono detto: "Che bello, pensa quanta gente in più verrà a vedere il mio film solo per DiCaprio...". Una cosa che è accaduta soltanto in parte».

Lei ha spesso notato che i suoi film vanno sempre meglio in Europa che in America, ma ha mai capito il perché?
«Ci sono due possibilità: la prima è che questo mistero mai compreso in pieno dalle case di produzione trovi la sua spiegazione nel fatto che avendo visto io centinaia di film europei, abbia girato con un gusto europeo le mie pellicole. Come un musicista che ascolta sempre la stessa musica fino ad assumere una particolare forma mentis, io potrei avere assorbito il cinema di Bergman, Truffaut, Fellini, Antonioni, De Sica fino a realizzare pellicole che assomigliassero un po’ a quelle europee. I miei film avrebbero così rispecchiato maggiormente la sensibilità estetica e il gusto del pubblico europeo che di quello americano. Il ritmo della commedia americana è, infatti, molto diverso da quello della commedia europea e il pubblico del vostro continente si sarebbe sentito più a suo agio che quello del mio. L’altra possibilità è che i miei film vengano migliorati dal doppiaggio».

Celebrity


Ha mai visto i suoi film doppiati?
«Molti anni fa a Taormina, e fu un’esperienza interessante. Personalmente, però, preferisco i sottotitoli, anche se mi rendo conto che possano distrarre il pubblico dal film. Una volta a New York potevamo assistere a decine di film europei proiettati in moltissime sale con la gente che faceva la fila per vederli. Oggi queste sale si sono molto diradate e la gente non vede più i buoni film del vostro continente».

Perché accade questo?
«Io amo la varietà del cinema, solo che mi domando che fine abbia fatto il buon cinema d’autore. Non mi importa che vengano proiettate commediole scipite e insulse, dico solo che nelle scuole e nelle università andrebbe insegnato agli studenti qual è il vero cinema e qual è la sua funzione. Ogni volta che mi chiedono di fare una lezione da qualche parte, trovo persone che si emozionano per pellicole senza senso e che non conoscono per esempio il cinema di Antonioni... è una cosa assurda. Sono dei ricchissimi ignoranti, che magari hanno solo sentito parlare dei grandi maestri e si entusiasmano per delle cretinate. Capisco che c’è un mercato, ma non si può piegare l’arte al mero profitto. Per fortuna alle volte, come nel caso de "La vita è bella", la gente fa la fila nei cinema di New York. È bello vedere un’opera d’arte come quella di Benigni ottenere questi incassi favolosi».

Lei ha dichiarato più volte di adorare New York, Parigi e Venezia. Che cosa unisce, ai suoi occhi, queste tre città così differenti tra loro?
«Adoro la città, non mi piace la campagna. Fuori da New York ci sono solo due città al mondo dove mi sento a casa: una è Venezia, l’altra è Parigi. Sono venuto a Venezia per la prima volta a cinquant’anni e prima di arrivare, mentre stavo sull’aereo, ero preso dalle angosce: non mi piaceva molto l’idea di dovere andare in giro con una gondola oppure su una barca. Quando, però, mi sono trovato per la prima volta a solcare la laguna, il tempo melanconico, le emozioni del paesaggio, la gioia irrazionale che mi derivava dall’esserci me l’hanno fatta amare. So che è pazzesco, ma per qualche motivo che non so spiegare New York, Parigi e Venezia hanno per me un denominatore comune che me le fa sentire molto vicine. Io ho girato tutto il mondo e tutta l’Europa. Queste tre città, nel mio cuore, non hanno uguali».

Lascerebbe mai New York?
«Sebbene New York sia peggiorata moltissimo negli ultimi trenta anni, io la trovo la ancora la più grande ed importante metropoli del mondo. Non ho motivi per farlo. Se lo dovessi fare non c’è dubbio che sceglierei di vivere tra Parigi e Venezia».

Lei non ha mai dato grande importanza ai premi e ai riconoscimenti avuti...
«I premi stanno solo nel lavoro stesso. Quando esce un mio film non mi interessa se vengo considerato un genio oppure un cretino. Tutto quello che avevo da dire sta nelle immagini che vengono mostrate e non devo risponderne a nessuno se non a me stesso. Non ritengo che un’opera creativa debba entrare in concorrenza con qualcun’altra. Sarebbe sciocco pensare che un film sia migliore di un altro e anche se non voglio denigrare nessuno, credo che per un regista il premio più bello sia potere mettersi subito al lavoro a un altro film. È un sistema che ha funzionato fino adesso e sono diventato troppo vecchio per cambiare proprio ora».

di Antonio D'Olivo e Marco Spagnoli

Sali  


Tratto da Cinema.it - Pubblicazione amatoriale, non si intende violare nessun copyright