New
York, New York
Woody Allen non finirà mai di
stupire. Alla sua filmografia già densa di esperimenti di successo come gli omaggi a
Bergman "Interiors" e "Un'altra donna", il decadente "Ombre e nebbia", gli effervescenti "La dea dell'amore" e "Pallottole
su Broadway", va aggiunto un musical "Everybody says : I love
you".
Anche in questa pellicola, ambientata tra New York, Venezia e Parigi, Allen mostra il
segno del suo genio sfruttando al massimo attori che non sono soliti cantare e scelti,
invece, con altri criteri di professionalità e capacità artistica.
Mr. Allen, perché girare un musical con attori che non sono dei cantanti
professionisti?
«Innanzitutto chiedo scusa per il mio modo di cantare. Tutto quello che volevo era
girare un film per persone che non sanno né cantare, né ballare. Per me la cosa
importante era creare emozioni e sentimenti. Non mi importava di fare un film con attori
dalle voci "meravigliose", ma incapaci di creare un vero feeling con lo
spettatore. Mi diverto molto di più a sentire gente che "gorgheggia"
sovrappensiero per la strada o in macchina, piuttosto che cantanti allenati a fare il loro
lavoro nella maniera migliore possibile.
Volevo fare un film con ottimi attori ed attrici, che, però, potevano cantare più o meno
bene. Io stesso mi includo nella categoria di persone che non sono assolutamente intonate.
Quando ho ingaggiato il cast non ho detto a nessuno che si sarebbe trattato di un musical.
Volevo solo dei buoni attori. Goldie Hawn, per esempio, ha una voce bellissima, ma io non
l'ho scelta per questo... Quando ci siamo incontrati, molti mi hanno detto: "Ehi
Woody, ma io non so cantare., io non ho mai cantato". Io ho risposto loro: "Beh,
ragazzi, nemmeno io l'ho mai fatto... Proviamoci"».
Che tipo di problemi ha avuto nel girare un film musicale?
«Nessun problema veramente rilevante. L'unica cosa che volevo era rendere veramente
bene le scene del ballo per qualunque spettatore seduto in qualsiasi posto al cinema. Non
volevo ci si perdesse sui particolari o ci fossero degli angoli morti. E' una cosa di cui
mi preoccupo spesso quando vado a vedere le partite di pallacanestro. C'è stato solo
qualche problema di inquadratura».
Lei canta spesso?
«Sì, ma solo quando sono a casa sotto la doccia».
Le piacerebbe cantare più spesso in pubblico, facendo, magari una tournée come
l'anno scorso con la sua banda di jazz?
«Certo, ma solo se mi permettessero di portarmi con me la doccia. Io potrei cantare
in tutti i più grandi teatri del mondo con la mia doccia oppure con una doccia
portatile».
Considera la
doccia come una coperta di Linus, oppure c'è qualche altra ragione?
«No, no c'è qualcosa di molto più serio: io non so perché, ma tutte le persone del
mondo cantano bene sotto la doccia. In tal proposito ho delle teorie: la prima è che il
marmo dei bagni rifletta bene il suono migliorandolo, la seconda è che gli ioni positivi
dell'acqua operino su di noi una specie di miracolo oppure ancora che il forte rumore
dell'acqua copra la voce a tal punto da non farci capire quanto siamo stonati.
Personalmente, però, non credo a nessuna di queste teorie».
In questo film, però, lei non balla...
«No, io tengo Goldie Hawn e lei balla, mentre la guardo. Il mio rapporto con la danza
è assai travagliato. Non so ballare, non ho mai ballato e da quando una volta fui
trascinato da una ragazza in discoteca ho deciso che non l'avrei mai fatto».
Kim Rossi Stuart si è assai dispiaciuto che la sua parte nel film sia stata
tagliata...
«Quando sono tornato a New York per montare la pellicola mi sono accorto che nella
sua versione finale il film durava due ore e quarantacinque minuti. Così ho dovuto
tagliare molte scene tra cui quella di Kim Rossi Stuart con mia figlia davanti al teatro
La Fenice. Era una cosa molto logica e molto giusta per seguire il filo narrativo della
sceneggiatura. Gli attori sono le persone più insicure del mondo e, quando accadono
queste cose, pensano sempre sia stata colpa loro. In realtà non è mai così, perché la
colpa, se di colpa si deve parlare è semmai di chi scrive la sceneggiatura, in questo
caso, io. Troppo spesso, infatti, gli sceneggiatori scrivono in maniera molto abile e
molto serrata. Quando questo capita, il montaggio diventa più difficile dovendo tenere
d'occhio il tempo. Non è la prima volta che mi capita una cosa del genere, e quando è
successo ho sempre riutilizzato, in seguito, quegli attori di cui avevo tagliato la parte
nel film precedente».
Lei ha sempre teso ad alternare film allegri a pellicole con storie tristi. I suoi
ultimi quattro film sono molto divertenti e spensierati. Questo significa che è un
momento felice della sua vita?
«No, è solo una coincidenza. Quando ho girato "Misterioso
omicidio a Manhattan" qualche anno fa, ero appena venuto fuori dal periodo più
nero della mia vita privata. Io sono felice in questo momento, ma il mio prossimo film
potrebbe essere una tragedia. Dipende da quale sarà la prossima idea che mi colpirà
quando sarò sotto la doccia».
Lei è stato accusato di occuparsi un po' troppo nelle sue pellicole dei problemi
della borghesia bianca newyorkese. Trova fondata questa critica?
«Se è per questo la comunità ebraica mi accusa di parlare male degli ebrei e quella
di colore stigmatizza il fatto che io non inserisco mai attori neri nelle mie pellicole...
Io abito in una città ed in un certo ambiente ricco. Quello che mi diverte è raccontare
quello che vedo. Tutti pensano che "i ricchi" non abbiano problemi, quando,
invece, in ogni mio film dimostro come le persone abbienti hanno i problemi di tutti
quando vengono a scontrarsi con le questioni di cuore o psicologiche».
Woody al lavoro sul set di Tutti dicono I love you
Il film è girato tra New York, Parigi e Venezia. Che cosa unisce, ai suoi occhi,
queste tre città così differenti tra loro?
«Adoro la città, non mi piace la campagna. Fuori da New York ci sono solo due città
al mondo dove mi sento a casa: una è Venezia, l'altra è Parigi. Sono venuto a Venezia
per la prima volta a cinquant'anni e prima di arrivare, mentre stavo sull'aereo, ero preso
dalle angosce: non mi piaceva molto l'idea di dovere andare in giro con una gondola oppure
su una barca. Quando, però, mi sono trovato per la prima volta a solcare la laguna, il
tempo melanconico, le emozioni del paesaggio, la gioia irrazionale che mi derivava
dall'esserci me l'hanno fatta amare. So che è pazzesco, ma per qualche motivo che non so
spiegare New York, Parigi e Venezia hanno per me un denominatore comune che me le fa
sentire molto vicine. Io ho girato tutto il mondo e tutta l'Europa. Queste tre città, nel
mio cuore, non hanno uguali».
Lascerebbe mai New York?
«Sebbene New York sia peggiorata moltissimo negli ultimi trenta anni, io la trovo la
ancora la più grande ed importante metropoli del mondo. Non ho motivi per farlo. Se lo
dovessi fare non c'è dubbio che sceglierei di vivere tra Parigi e Venezia».
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