Alcune pagine su
Woody Allen tratte da "Il nuovo
cinema americano 1967-1975" di Franco La Polla, un'impredibile opera per tutti gli appassionati di cinema.
Stendhal disse che non esiste un romanziere che non
abbia elaborato una sua propria filosofia del mondo. E questo vale, naturalmente, anche
per un autore cinematografico. Certa critica francese ci ha insegnato che in America
l'autorialità esiste al di là delle cento difficoltà poste dal cinema come industria.
Così fra i mille disegni di un arazzo cui direttamente o indirettamente hanno posto mano
persone, volontà e intelligenze diverse, è possibile scorgere la «cifra nel tappeto»
che rivela il piano reale dell'autore, la sua creazione sommersa negli altri ornamenti del
quadro. È questo, ad esempio, il caso di un regista come Pollack, il quale, dietro lo
schermo dei generi (western, melodramma, detective film, film bellico ecc.), ha
continuamente intessuto una sua triste storia di passato e presente, di tempo perduto e di
amore senza speranza, costruendo una vera e propria metafisica nella quale ogni aspetto
della realtà prende un suo posto nella struttura generale del quadro.
Ci sono però due autori che non rientrano nel condizionamento operato
dal sistema produttivo per la semplice ragione che essi sono in tutto o in parte i
produttori di se stessi. Naturalmente l'autonomia produttiva non è una loro scoperta, ma
in genere essa caratterizzava film che (come nel caso del New American Cinema Group) si
opponevano alla fiction del cinema hollywoodiano, in tal modo toccando a volte
sponde imparentate col documentarismo, il quale - com'è ovvio - non può organizzarsi in
un'elaborazione concettuale dei dati del reale, ma soltanto come adeguamento alla
possibilità di una loro narrazione. È questo un vuoto che in gran parte caratterizza
anche il giovane cinema americano indipendente di questi ultimi anni, ancorato a
un'osservazione del costume di certi gruppi più o meno emarginati o alternativi, e in
definitiva anch'esso interessato a una visione diretta (o almeno supposta tale) della
realtà - che è poi, si noti, unicamente una certa realtà americana - più che a un
tentativo di leggerla attraverso parametri intellettuali che lo comprometterebbero
culturalmente.
I due autori in questione sono Robert Altman e Woody
Allen. Registi più diversi non si potrebbero trovare. Tanto meglio, poiché
proprio la diversità testimonia la presenza di un impegno intellettuale oggettivo che non
nasce su terreni specifici e limitati, ma si presenta invece come personale pratica
autoriale irriducibile a quella di altri.
Altman è probabilmente l'unico autore del cinema americano
contemporaneo ad avere abbandonato radicalmente la struttura narrativa hollywoodiana
attraverso una ricerca che non è puramente figurativa o organizzativa (se così fosse, in
teoria ben poco lo separerebbe dal New American Cinema), ma concettuale, e
naturalmente traduzione ditale impegno in originali termini cinematografici. Altman non è
l'unico autore americano odierno ad avere elaborato una «filosofia» del mondo (Pollack,
ad esempio, è certamente un altro), ma è l'unico ad averla praticata
cinematograficamente, ad avere cioè riscritto il cinema americano attraverso di essa, ad
avere trasformato il rapporto di un autore con i suoi segni di stesura di una vera e
propria filosofia. Lo studio che Altman opera della realtà non si ancora a modelli
narrativi ricevuti, nemmeno quando - come in "I compari" o "Il
lungo addio" - egli sembra rivisitarli metalinguisticamente. Il suo è un cinema
in progress, sia nei singoli esiti che nel tragitto globale della sua opera,
ricerca gnoseologica «aperta» e in continua trasformazione sulla base, s'intende, di
precisi riferimenti concettuali, prima fra tutte l'idea di serialità.
D'altra parte, il cinema di Allen si presenta paradossalmente (e si sa
bene che ruolo fondamentale abbia nell'autore il paradosso) come un non-cinema, almeno
fino a "Io e Annie" (Annie Hall,
1977), l'unico suo film a tutt'oggi cinematograficamente compiuto. Per Allen - al
contrario di Altman - il cinema è soltanto il mezzo di presentare una propria visione del
mondo già chiaramente elaborata e strutturata, ma non in termini cinematografici poiché
il cinema riveste per lui in questo senso un ruolo secondario. Allen, insomma, dimostra
che si può fingere di fare un film senza farlo: che il cinema, in definitiva, non esiste.
Non ci sono leggi da osservare, ritmi da mantenere, costanti da preservare: c'è solo
l'uomo e la sua tristezza, peraltro posta in termini comici, secondo la miglior tradizione
antieroica contemporanea, di cui si è già parlato. Tuttavia Allen - proprio in funzione
della sua finzione - sceglie di rivisitare generi cinematografici stabiliti, consolidati.
Apparentemente li parodizza, in realtà li elimina in nome di un altro interesse: quello
di dialogare con il pubblico (quante volte nel suo cinema egli si indirizza alla macchina
da presa, all'uditorio!), di infrangere la barriera dello schermo per renderci una
dimensione umana che non vuole tradurre in modo cinematografico. La sua filosofia, fondata
sul sesso e sulla morte, ha qualcosa di niciano (naturalmente previo ribaltamento di tutto
ciò che in Nietzsche ruota attorno a questi due centri di interesse che ossessionano
Allen). I seriosi teorici contemporanei della politica non arriccino il naso: in un'epoca
in cui l'Essere diventa in sostanza il partito comunista - come nella teorizzazione di
Massimo Cacciari - il paragone non è dei più peregrini. Dopotutto, non era stato
Nietzsche a dire che una battuta è un epitaffio su un'emozione? Non si potrebbe trovare
migliore definizione del senso profondo dell'umorismo di Allen e, soprattutto, migliore
statuto della natura filosofica del suo cinema (Allen, fra l'altro, ha scritto un racconto
dove dimostra chiaramente la sua conoscenza del filosofo tedesco, sempre nei termini
paradossali che gli sono consueti, e che del resto sono consueti anche a Nietzsche). Il
cinema è dunque strumento; ma non in quanto cinema, non cioè nei modi stabiliti dalla
sua pratica, bensì come oggetto, arnese concretamente funzionale a comunicarci la
continua presa di coscienza di una condizione umana e una riflessione personalissima su di
essa.
Altman nobilita il cinema reinventandolo, Allen lo degrada
sopprimendolo nella sua funzionalità a un diverso discorso, a qualcosa che esclude una
qualsiasi pratica cinematografica. In Altman il cinema è filosofia, in Allen la filosofia
è cinema.
Woody Allen
Woody Allen sta elaborando da alcuni anni una sua personale erosione
dei generi cinematografici attraverso la costante del suo stesso personaggio, vale a dire
una miscela di nonsense che porta la firma dei fratelli Marx, di una tradizione
yiddish sottilmente patetica, di un antieroismo colto e cittadino di estrazione tutta
novecentesca. Giudicato secondo metri politici, il cinema di Allen è spazzatura: cosa di
più irritante, da questo punto di vista, di "Il
dittatore dello stato libero di Bananas" (Bananas, 1971) nel quale
rivoluzione cubana, dittature latinoamericane e maneggi della CIA ballano in modo
sgraziato e assurdo sul palcoscenico allestito da Woody? No, con Woody Allen non ci si
può fermare ai «contenuti», la sua critica vuole un'altra ottica perché essa si
esercita su un diverso piano, quello del linguaggio, sia in senso stretto sia in senso
cinematografico. Il cinema di Allen, insomma, è un po' come il suo personaggio: modesto,
quasi impacciato e scombinato, esso parla di cinema, e più in generale dei luoghi comuni
della nostra cultura. Da un lato stanno tradizioni e istituzioni (generi cinematografici,
regole sociali, un linguaggio sderotico di significanti senza significati), dall'altro
Woody, una specie di cartina di tornasole dell'assurdità delle situazioni in cui si trova
immerso, costruita dell'unico materiale cui secondo l'autore corrisponde un'effettiva
sostanza, di veri significanti-significati: il sesso e la morte (Nota 1). Di reale, a ben guardare, nel mondo di Woody
non c'è altro. I poli finali del carnevale assurdo sono quelli. Il resto è cartapesta, o
addirittura sogno. Qualcosa, comunque, che non ha assolutamente la consistenza della
realtà. Così, in "What's Up, Tiger Lily?"
(1966) - mai giunto in Italia -, una satira camp del melodramma di spionaggio, e
sua prima prova, nel bel mezzo del film l'azione si squarcia per lasciar posto a
un'intervista sulla struttura dell'opera, la sua costituzione, quasi un questionario per
discuterne l'andamento (viene in mente certo Robbe-Grillet, o magari, sul versante
letterario contemporaneo, il Barthelme di Snow White, un autore per alcuni versi
non lontano da Woody).
Lo spoof continua, e in "Prendi
i soldi e scappa" (Take the Money and Run, 1969) vengono presi di
mira il prison film (i riferimenti a Cool Hand Luke, girato da Stuart
Rosenberg due anni prima, sono precisi), il gangster film e il documentario-inchiesta. In
"Il dormiglione" (The Sleeper,
1973), invece, il film avveniristico, e in "Amore e
guerra" (Love and Death, 1975) i filmoni storico-passionali alla
Clarence Brown. Del resto, questa è un po' la vocazione di Allen, il quale un anno prima
di passare alla regia aveva scritto la sceneggiatura di "Ciao, Pussycat" (What's New, Pussycat?,
1965) di Clive Donner, altra satira della commedia brillante americana, abbondantemente
condita, però, di frecciate a quella religione del nostro tempo che è la psicoanalisi. O
ancora, quella poco nota satira sulla commedia politica a incidente diplomatico - un
prodotto che troverà nuova vita nell'atmosfera internazionale del secondo dopoguerra -
che è "Come ti dirotto il jet" (Don't Drink the Water, 1969)
di Howard Morris, con due splendidi caratteristi come Estelle Parsons e Jackie Gleason.
Persino quando i film che interpreta sono diretti da qualcun altro la presenza di Woody è
sufficiente ad ascrivere a lui il marchio di fabbrica; soprattutto, è ovvio, se la
sceneggiatura è opera sua. "Provaci ancora, Sam!"
(Play It Again, Sam, 1972) di Herbert Ross ne è la prova migliore. Imbevuto di
quella sostanza cinefila che è una costante del suo cinema, il film non è soltanto una
revisione critica e onirica di un mito hollywoodiano (qui Woody è addirittura un critico
cinematografico), ma anche un metalinguistico omaggio ai Marx Brothers, che per primi
osarono ironizzare sul famoso "Casablanca" di Curtiz (Nota 2) e che del resto compaiono in modo inequivocabile
anche in "Prendi i soldi e scappa" (i
baffi, il naso e gli occhiali dei genitori del protagonista al momento dell'intervista).
È in questo senso alquanto indicativo che il film meno riuscito di Woody sia "Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso" (Everything
You Always Wanted to Know about Sex - But Were Afraid to Ask, 1972), ovvero un'opera
a episodi che solo in parte mostra un evidente côté cinefilo (si veda
soprattutto l'episodio antonioniano).
Riuscito o no, il cinema di Allen si muove comunque, al di là di ogni
dubbio, fra i poli di Eros e Thanatos. E per assurdo che possa sembrare (a parte il fatto
che è Woody il primo a confessarsi ammiratore del regista svedese [Nota 3]) è un cinema più vicino a Bergman che a Jerry
Lewis. Gli omaggi bergmaniani non vi mancano, dal sogno in Bananas al personaggio della
morte e all'inquadratura di Sonia e Natascia verso la fine del film in Amore e guerra. Ma
soltanto in quest'ultimo Woody è riuscito a costruire un'opera sottile e organizzata nei
suoi significati ultimi. Certo, a ben vedere, dietro ogni battuta di ogni suo film si
nasconde una ricchissima tradizione americana, quella dello speech (Nota 4) e più specificamente quel wisecrack così
tipico del teatro leggero americano del primo '900, che contò a suo tempo nomi famosi, da
George S. Kaufman e i Marx Brothers - che lo stesso Allen riconosce come le primarie
influenze del suo humour (Nota 5) -
a Bert Lahr, Bobby Clark ecc. Ma mentre, ad esempio, nei film dei Marx il riferimento a
quel tipo di teatro si poneva in via diretta, parametro d'obbligo di un cinema che in
fondo ne era la versione filmata - salve restando, ovviamente, le differenze del caso -,
Woody vi innesta innegabilmente, come si diceva più sopra, elementi del tutto personali
in gran parte mutuati dalla cultura ebraica nuovayorkese. Woody, insomma, è una specie di
Groucho afflitto dai complessi di Portnoy. Le preoccupazioni dell'Eros non lo abbandonano
un solo minuto, ogni singola scena è in funzione della sua situazione esistenziale. Ed
Eros trova, al solito, il suo classico antagonista in Thanatos, con l'aggravante che nel
personaggio di Woody l'ontologia di Eros ha il suo bel da fare a fondarsi in quanto tale.
In tutti i suoi film migliori Woody è alle prese con pericoli mortali abbondantemente
conditi di problematica sessuale, esaltata, questa, dal suo aspetto e dai suoi modi
tutt'altro che socialmente efficaci ai fini di una soluzione del conflitto. Tra i film
migliori solo "Provaci ancora, Sam!"
sembra in parte sfuggire a questo modello. In realtà, esso vi è solo presentato e
strutturato in modo diverso. L'ombra di Bogart, infatti, è un fantasma non soltanto
perché immagine fantastica di un reale scomparso e non soltanto perché mito fittizio di
un medium della cultura di massa, ma anche perché immagine di morte sia in senso
letterale sia in senso latente. Bogart è nel film anche, se non soprattutto,
l'altro-da-sé non solo in quanto modello, ma in quanto termine ultimo del proprio
desiderio. Non è Harvey, scanzonato coniglio gigantesco e nonsensical venuto a
scompigliare assurdamente un ordine apparentemente tranquillo e razionale, né lo
«spirito allegro» di Coward, edulcorato e burlone, ma proiezione della fantasia che si
risolve in negazione della realtà e in completo assenso al fittizio, emblema non
occasionale del tentativo di Sam di modellare il reale sul fantastico, e insieme Eros su
Thanatos.
Su questa via "Amore e guerra"
è senz'altro il film più ricco di Allen.
Per un verso mockery di certo cinema storico-passionale,
"Amore e guerra" trova nel modello
stesso che dissacra il terreno più fertile e sicuro per il proseguimento e il
perfezionamento della primaria opposizione strutturale del cinema di Allen. La tradizione
narrativa cui allude esplicitamente è quella tolstoiana (ma anche dostoevskiana) o più
in generale quella tradizionalmente ottocentesca. Così Woody, il più inequivocabile
antieroe degli anni '70, si cimenta con la più squisita epica dell'eroismo occidentale
moderno, la quale gli prende addirittura la mano (valgano per tutte le scene di battaglia,
di un colorismo e di una composizione figurativa degni delle migliori opere di genere
fatte in questo campo, tanto che quasi dispiace vederle «rovinate» da gag più o meno
indovinate). Ma è proprio questa incongruenza che, unitamente all'usuale tema di fondo,
rende il film un'opera sostanzialmente triste. Al di là di alcune fra le più memorabili
battute del repertorio di Allen, vi si scorge una sorta di Weltschmerz mediata,
ma non compromessa, dall'inesausto umorismo che corre per tutto il film. Per la prima
volta il personaggio si confida continuamente col pubblico, e non tanto attraverso
l'espediente della voce fuori campo, la quale assolve spesso la funzione di «io
narrante» nel senso strettamente letterario del termine (vale a dire di mezzo
informatore, e insieme di eventuale commento, su determinati eventi cui l'autore non
intende lasciare ampio spazio); o, contestualmente, come espediente per generare nuove
battute e gag (vedi, ad esempio, il «leggero nervosismo» della moglie nei primi tempi
del matrimonio, che si concreta in bicchieri spezzati con la pressione della mano e tavole
apparecchiate che vengono spazzate via con un colpo frenetico del braccio). I discorsi che
Woody intavola a intervalli con il pubblico sono il vero commento al senso del film
(quello in chiusura, poi, è particolarmente esplicito). E sono commenti tristi, sofferti,
ancorché mascherati dalla solita logica dell'accostamento incongruo, del paradosso, del
riso nonsensical.
Date queste premesse, non è difficile rintracciare in Allen una
prepotente matrice autobiografica come dominante di ogni suo film. Ed è questa, anzi, la
maggior accusa che si sente ripetere nei confronti del suo cinema: là dove un altro
autore medierebbe l'esperienza soggettiva attraverso spostamenti narrativi, metafore, o
magari persino attraverso brevi allusioni non strettamente necessarie all'economia
dell'intera struttura (vedi in quest'ultimo senso il caso vistosissimo di parecchi registi
della «nouvelle vague» francese), Allen fa del suo cinema una continua allusione
soggettiva, tale da porsi come organismo massiccio (anche se a volte frammentario) e non
momento incidentale. Questo è senza dubbio vero. Ma è altrettanto vero che la funzione
mediatrice è qui affidata non alla traslazione, allo spostamento, ma al ribaltamento del
senso tragico dell'esperienza che ne viene in questo modo ironizzata e per ciò stesso
comicamente dilatata alle dimensioni dell'assurdo. Normalmente, però, questa tecnica,
così usuale nei film di Allen, ingigantisce a tal punto i termini comici (il
«ribaltamento»), da risultare l'unica «figura» del suo cinema, da mettere in ombra la
serietà, il problema di fondo che la muove. Così Allen diventa autore comico tout
court, barzellettiere di stampo ebraico-nuovayorkese.
"Amore e guerra",
invece, è il primo film in cui Woody, pur non rinunciando affatto alle componenti che
usualmente caratterizzano il suo meccanismo creativo (o, se si vuole, a quella mediazione
del comico che appare invece ogni volta come la figura assoluta del suo cinema), lascia
affiorare con una certa chiarezza la matrice originaria, seria e dolente, della sua opera:
da un lato, come si diceva, attraverso il dialogo diretto con la macchina da presa (sia
pur temperato dall'usuale componente comico-verbale), dall'altro attraverso l'impiego
stesso del décor, la cui funzione non è certamente quella di creare uno sfondo
scenografico tale da giustificare in un modo o nell'altro uno «spazio scenico» al
personaggio, ma piuttosto quella ben più significante di creare un ambiente di larghe
proporzioni storiche, e a volte persino sociali, che non assolva la semplice funzione
catalizzatrice del comico che aveva caratterizzato i film precedenti, ma che si ponga come
situazione (per non dire addirittura deuteragonista) spaziale e
temporale in cui il personaggio si muove (vedi, ad esempio, quel che si diceva più sopra
sulle sequenze di guerra). Ciò che aveva regolarmente caratterizzato l'ambiente degli
altri film era, a ben vedere, la quotidianità dello scenario: ogni elemento si presentava
nel posto e nelle forme in cui ce lo saremmo aspettato (anche in Il dormiglione,
programmaticamente il film di Allen più lontano da una concezione dello scenario di
questo tipo). Questo è vero anche per "Amore e
guerra" solo in quanto spoof del film storico-passionale, ma non
per quel che riguarda lo spazio del movimento del protagonista e di Sonia al di là dei
loro atti in quanto funzionalmente dissacranti il genere cinematografico cui si
riferiscono.
Si tratta, insomma, di due piani di minima: l'uno metalinguistico,
l'altro etico-psicologico di tradizionale impronta narrativa, ambedue però uniti dalla
comune soluzione comica nei termini della logica assurda caratteristica di Woody. Dove
questi raggiunge il meglio di sé è ovviamente nel momento in cui sulla base del
denominatore comune di cui sopra, i piani si intersecano (ciò che è del resto frequente
nel film): ad esempio, la riflessione sul vecchio Grigori e sul giovane Grigori dopo la
definizione della vita come fatto razionale, o la scena in cui Sonia, dopo avere come al
solito discusso in termini intricatissimi e assurdi di etica e gnoseologia con un ospite
che tenta di corteggiarla, chiede a questi alquanto seccata: «Si potrebbe non parlare
tanto di sesso?». E via dicendo. Solo in un film precedente Allen si era avvicinato al
grado «tragico» che qualifica "Amore e guerra",
senza però impiegare le identiche linee strutturali di cui si diceva: "Provaci ancora, Sam!" Ma in "Provaci ancora, Sam!" era del tutto assente il
livello metalinguistico relativo al genere, il quale veniva sostituito - del resto in modo
efficace e intelligente - dalla dimensione mitologica del tema. In questo modo, l'altro
piano trovava in certo senso ancora più ampia giustificazione, saldandosi perfettamente
col primo: così la discrepanza fra individuo e Storia di "Amore e guerra" diventava la discrepanza fra
individuo e quotidianità (questa volta nel senso non esteriore del termine), esaltata dal
catalizzatore mitologico che, come al solito, Allen intravede nel cinema stesso come
fabbrica di sogni, come mezzo onirico di massa.
Se dunque è vero, come ha scritto Guido Fink, che il grosso limite
cinematografico della comicità di Woody Allen confrontata, ad esempio, con quella di
Keaton, è che essa è raccontabile (Nota 7) è anche
vero che quella comicità si rivela mezzo, espediente mediatore di un discorso
«altro» troppo spesso sacrificato al piacere del riso (sia pure, ancora una volta nello
spirito dei Marx Brothers, un riso di non indifferente portata eversiva). E quel che ne
emerge come «non raccontabile» è allora il risvolto riflessivo e dolente di quel riso,
il discorso ultimo verso cui esso tende. Al peggio, il cinema di Allen può anche non
essere un grande cinema comico, ma piuttosto il cinema di un letterato (non a caso Woody
è anche autore di comicissime «short stories»[Nota 8])
che nella parola comica, figurativamente corredata, ha trovato un qualche spazio
per esprimere i termini estremi di un'autobiografia che in parte è anche la nostra.
Al meglio, esso si rivela scenograficamente e visivamente significante
nella forma di una struttura organizzata in cui il privilegio costante di quella stessa
parola non riesce a offuscare - ma anzi sostiene con fondamentale supporto - una vera e
propria visione del mondo.
Nota 1 (): Parole di Allen: «Be', da quando mi alzo a quando me ne vado
a letto penso costantemente al sesso e alla morte». Vedi S. Kanfer, Woody Allen:
Rabbit Running, «Time», 3 luglio 1972, p. 25.
Nota 2 (): Vedi al proposito il divertentissimo carteggio fra Groucho e
la Warner Bs., riportato da Goldblatt e Zimmermann nel loro Les Marx Brothers au
cinéma, Solar, Paris 1971.
Nota 3 (): S. Kanfer, op. cit., p. 25.
Nota 4 (): Vedi C. Rourke, American Humor (1931), Harcourt,
Brace & Cp., New York
1942, p. 294.
Nota 5 (): S. Kanfer, op. cit., p. 24.
Nota 6: Vedi S. Kanfer, op. cit., p. 22, in cui è lo stesso
Allen ad ammettere questa dominante. Kanfer, del resto, parla di una «ability to
merchandise his misery» da parte dell'autore (p. 23).
Nota 7 (): Vedi G. Fink, La struttura era un albergo,
«Paragone», n. 274, dicembre 1972, p. 68.
Nota 8 (): Sulla «letterarietà» del cinema di Allen vedi la
recensione di R. Benayoun ad Amore e guerra, «Positif», n. 175, novembre 1975,
pp. 56-58, e in genere tutta l'intelligente e informata trattazione di G. Bendazzi, Woody
Allen, La Nuova Italia, Firenze 1976.
Testo tratto da: "Il nuovo cinema americano
1967-1975" di Franco La Polla (pp. 179-181, pp. 192-199), Torino, Lindau 1996
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