Riflessioni sull'opera creativa di Woody Allen
di Marta Morazzoni
A volte la comicità di Allen è commovente, a
volte è un punteruolo che si incunea tra una sicurezza e l'altra della vita altrui. Non
era anticamente questo il ruolo del jolly in Shakespeare? Per quanto inappropriato sia il
paragone mi nasce dalla constatazione di quanto il pendolo tra comico e tragico che si
gioca nei film del regista americano manifesti un'oscillazione sempre più frequente.
Un tempo tutto il suo cinema era giocato sul comico e tutt'al più sull'induzione segreta
e tacita alla riflessione. Chi ne aveva voglia se la concedeva e se la sarebbe concessa
comunque; ma era un'opzione tra le tante una delle quali, la più esplicita, era rivolta
al puro piacere della battuta. Poi venne il tempo della serietà che per altro pochi
presero allora sul serio. Pareva il discolo che di colpo simulasse di aver messo la testa
a partito, ma con scarsi argomenti di persuasione. Imitava Bergman e non lo era, gli
mancava la vena di un rigore religioso e problematico: insomma, niente più di un
adolescente che scimmiotta il padre. Un adolescente di quasi cinquant'anni. Ma l'età
conta così poco!
Adolescente o meno, o forse adolescente a mia volta, questo comico
sconcertato dalla sua stessa comicità mi è sempre stato caro. Caro, che è più che
stimato, ammirato, idolatrato. L'ho seguito con simpatia superficiale nei suoi primi film
e ne ho sentito crescere la qualità creativa nel corso del tempo. Non ne faccio una
questione di competenza cinematografica, che ho in poca misura, quanto un fatto di
argomenti. L'adolescente ha scherzato con le cose grandi della vita, poi ha cercato di
prenderle sul serio; infine le ha genialmente prese sul serio scherzando. Ha scelto la via
più complessa, quella della risata, e l'ha fatta, questa sua risata, sempre più sottile,
sempre più ramificata, in qualche caso aspra se non corrosiva. Ho considerato una parte
della sua regia, quella che va da "Hannah e le sue
sorelle" in poi; nel mezzo, perno ideale, metterei "Crimini e misfatti" e da lì in poi una crescita
costante che passa per le vie diverse dell'ironia e della fiaba. Amara comunque, anche la
fiaba a lieto fine, amara perché fiaba e non realtà. "La dea dell'amore" era il primo proposito fiabesco
di serietà, la prima favola, cui sarebbe seguito "Tutti
dicono I love you", un titolo che era un programma.
Mi sembra inutile soffermarmi su quello che di un tale film hanno detto
in abbondanza persone più addentro di me circa il senso del linguaggio cinematografico.
Su una cosa posso indugiare ora, sulla vena profonda e scavata che Allen ha mostrato in
questo musical, in questo gioco di parti cantante e recitate. Si alzano certi strani inni
al matrimonio, alla famiglia, alla tenerezza dei sentimenti. Ma nel momento in cui ci si
lascia andare soddisfatti al benessere di questa musica, una certa lama tagliente incide e
lascia una traccia incupita: un risveglio amaro da un sonno goduto. Woody Allen sogna
moltissimo, usa il cinema come luogo fisico del sogno, ma si e ci sveglia una frazione di
secondo prima che il film sia chiuso, magari già sui titoli di coda. Sogna o, ancora
meglio, racconta nel tramite del suo strumento eletto, la macchina da presa, elevando a
sistema lo sguardo che passa solo attraverso l'obiettivo. Da qui lo smarrimento
dell'attore che in "Harry a pezzi" si
scopre affetto da una sindrome sconcertante, la sfocatura. È un dato di sottile
autobiografismo, forse, ma non necessariamente tale. O almeno tale in un senso più largo.
È lui, il regista, e in questo caso mi piace poter dire l'artista, ad essere sfuocato in
questa società cui non si adatta. Probabilmente a torto, come fa notare la psicanalista,
che lo richiama al fatto di voler imporre a tutti gli altri gli occhiali che non vogliono,
per mettere a fuoco la realtà distorta che lui, l'artista, vede. Parrebbe, traslata in
una dimensione ironica e prosastica, la storia del baudelairiano albatros. Il rovescio
della medesima medaglia, il rovescio su cui sorridiamo dopo aver ascoltato compunti la
storia del poeta francese. Anche quella di Allen è una improduttiva ricerca della
felicità, e questo è un argomento maledettamente comune a molti, poi ognuno ha un suo
metodo e un suo stile nell'essere inevitabilmente sconfitto. Lo stile di Allen mi
commuove, anche nella forma di quest'ultimo film, forma rabbiosa e in qualche caso
imbarazzante, non tanto per la pornolalia di cui fa più ampio uso qui che altrove.
Disadattato alla vita, dice di sé Harry lo scrittore, e confessa alla
sua maniera ironica quanto sia disagevole il disadattamento, quanto inevitabile la
solitudine di un grande egocentrico. Ed essere artisti richiede una dose di egocentrismo,
egocentrici anche nel riconoscere i propri difetti, verrebbe naturale dire «peccati» in
questo contesto provocatoriamente laico. Non ci si deve confondere con il solo parlare
sempre di sé. Penso anzi che in questo senso la capacità di ascoltare il mondo altrui
sia fondamentale. Se così non fosse ci saremmo stancati da tempo di dare retta agli
sfoghi di questo brutto anatroccolo; che ha invece il pregio di leggere dentro un disagio
interiore diffuso, su cui passiamo e che schiacciamo sotto il peso di altri bisogni
indotti e finzioni di felicità.
«Il sogno è suo» dicono i fantasmi che vengono a invitare
Harry alla cerimonia in suo onore, cerimonia senza testimoni reali, ma confortata dalla
presenza di tutti i suoi personaggi, almeno loro grati di essere stati messi al mondo
dallo scrittore. Il sogno è suo, quindi può scivolarci dentro come vuole; il sogno è il
campo magico dell'invenzione, della manipolazione fantastica. Il luogo di Peter Pan. Se un
auto da fé questo film può rappresentare, è nel dichiarare in parte almeno la colpa di
aver sognato tanto. E di aver di conseguenza creato tanto. Se c'è un autore
cinematografico fecondo in questi anni è appunto Allen, e tale in piena autonomia da
altre arti, libero dal vizio della copia del romanzo d'autore; non scevro da citazioni,
sicuro: Fellini ogni tanto viene doverosamente ricordato e il maestro svedese gli sta
spesso dietro le spalle, magari in allusioni grottesche, come nel caso della morte che
apre il primo dei racconti-verità di "Harry a
pezzi".
Mi piace anche in queste cose il cinema di Allen, che non ha
vergogna a omaggiare i suoi maestri e a raccontare di sé attraverso i tanti film che ha
masticato negli anni giovani. Il suo mondo scorre su pellicole altrui, si fa da loro e si
accresce. A volte per raccontarsi usa un linguaggio che è il balbettio di un adolescente
alle prime armi con una dichiarazione d'amore, e il balbettio della parola si traduce in
immagine, in un montaggio tutto pezzi (del resto Harry è a pezzi) e interruzioni,
frammenti e ragguagli. Mi viene il dubbio che il cinema di Allen, dell'intellettuale
newyorkese per eccellenza, sia un cinema viscerale. Il connubio tra cervello e istinto,
istinto del raccontare, o del raccontarsi, che è in ultima analisi la cosa a cui ci
appassioniamo di più.
Marta Morazzoni, dal «Corriere del Ticino», 04/03/1998, pagina 37
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