Woody
si racconta
Quanto segue è l'unione
di diverse interviste, la più recente del '95.
Quando
a diciott'anni ho iniziato a scrivere delle gag e delle barzellette per le
trasmissioni radiofoniche, la mia comicità non si avvicinava certo a quella ebraica. A
quell'epoca, negli anni Cinquanta, i veri soggetti delle battute erano il matrimonio, le
automobili e il divorzio. Scrivevo per esempio battute del tipo: «La mia ex-moglie ha
ottenuto il possesso dell'automobile, della casa e del conto in banca. Se mi risposo e
avrò dei figli lei otterrà anche la loro custodia». La mia ex-moglie aveva quindi
deciso di querelarmi e voleva un milione di dollari, poiché era convinta che mi prendevo
gioco di lei troppo sovente. A quell'epoca inserivo una pagina bianca nella macchina da
scrivere e inventavo cinque gag per pagina. Non ho mai fatto fatica a trovarne,
ero ancora uno studente e guadagnavo cento dollari alla settimana. Vi è sicuramente una
certa aggressività negli ebrei e uno humour di autodifesa. Un ebreo come Chaplin è
sempre più divertente di un irlandese come Keaton; quest'ultimo è un autore più
interessante, ma Chaplin non ha che da svoltare l'angolo di una via e vi fa immediatamente
ridere.
Ammetto di essere cresciuto in un quartiere completamente
israelita, e non sono mai stato vittima di alcuna forma di discriminazione. Nessuno mi ha
mai picchiato a scuota perché ero ebreo e non mi è stato mai rifiutato l'ingresso in
nessun locale pubblico, contrariamente a Groucho Marx di cui si conosce la famosa frase:
«I miei figli sono per la metà ebrei: possono entrare in piscina fino alle ginocchia?».
Su cento delle mie battute forse una soltanto è su questo tema, eppure il pubblico non
ricorda che quelle ed è convinto che io faccia solo battute jiddish. Così come
posso dire che nessuno dei miei film sia veramente una commedia jiddish. In queste
parlo solo di quello che conosco meglio.
Gli ebrei americani crescono pregando in una lingua di cui non
capiscono una parola, vengono costretti dai genitori ad andare in sinagoga anche quando
non provano alcun sentimento religioso. In un certo senso io metto la religione ebraica
assieme a tutte le altre, come una religione organizzata e di conseguenza estremamente
nociva. Penso infatti che tutte le religioni organizzate non lavorino per il bene del
genere umano. Che cosa cè di più assurdo che costringere un ragazzo ad andare in
sinagoga a pregare Dio in una lingua che non gli permette di sapere che cosa sta dicendo?
Ogni religione ha la sua lunga lista di concetti assurdi e
persino dannosi. Esistono dei concetti particolarmente stupidi, come pregare o pretendere
di parlare con Dio. L'esperienza religiosa ebraica, come d'altronde anche quella
cristiana, è costituita da precetti scritti per la diffusione della sua stessa sicurezza,
del loro potere e della pace dello spirito, e non hanno alcun legame possibile con Dio,
ammesso che esista. Se esiste un Dio questa gente non ha la benché minima idea di che
lingua debba usare per poter parlare con la propria divinità, non sa nemmeno da che parte
cominciare. Tutte le religioni hanno mostrato una funesta follia. Si sono meritate solo
disprezzo e non rispetto. Non intendo dire che una persona non possa essere religiosa sul
piano personale o provare sentimenti autenticamente religiosi, ma nel momento in cui
questi vengono organizzati sono assolutamente da condannare.
Groucho Marx à stato l'unico grande genio comico della sua
generazione che io abbia avuto la gioia di conoscere personalmente negli ultimi cinque
anni della sua vita. Mia madre aveva una stupefacente rassomiglianza con il grande comico.
Vi era tra loro una somiglianza come di famiglia, identica a quella che potevano avere i
Marx fra di loro. Basta vedere delle foto di Groucho senza baffi per scoprire che aveva un
viso apparentato con la parte materna della mia famiglia. Ho incontrato Groucho, per la
prima volt, al ristorante Lindy's, che oggi non esiste più e ho avuto subito
limpressione di trovarmi davanti a uno dei miei zii. Quegli zii che incontri
unicamente ai funerali o ai bar-mitzvash, che ti stringono la mano con
rimprovero, dando dei pizzicotti al sedere delle cugine o delle zie e che ti fanno delle
osservazioni affettuose ma sarcastiche.
Mio padre invece, che era un tassista, assomigliava a Fernandel.
La mia era una famiglia etnica pittoresca, della piccola borghesia, con le mollette per la
biancheria sul terrazzo e il bucato che pendeva dalle finestre. Ci mandavano fuori di casa
alle sette del mattino e ci dicevano di rientrare dopo mezzanotte. Forse è per questa
ragione che sono diventato molto atletico. Tutto ciò può sembrare sorprendente, ma è
vero. Quando ero bambino giocavo a pallone tutto il giorno, dall'alba al tramonto.
Giocavo a baseball, a football, a hand-ball, a basket-ball e a
stick-ball. Ho anche vinto delle medaglie nella corsa di fondo e praticavo con
successo il pugilato. Adoravo la squadra di footballl dei Giants, che hanno sempre
rappresentato il mio modello per quel che riguarda la prestanza fisica. Pratico anche la
prestidigitazione, la magia e i trucchi con le carte. Da giovane credevo che sarei
diventato un giocatore professionista o anche un truffatore, poiché sognavo una vita di
crimini e di rapine! Ho notato infatti che tutti i comici hanno questo amore per la
manipolazione. Inoltre adorano anche la fotografia o suonano uno o più strumenti: Groucho
suonava la chitarra, Jack Benny il violino (come Chaplin), Sid Caesar, che fu il primo a
scritturarmi come comico, suonava il sax. Io suono il clarinetto Dixieland nello stile del
mio idolo Sydney Bechet. Ma il mio vero talento è lo scrivere. A scuola ero sempre quello
che scriveva dei testi e poi li leggeva ad alta voce a tutta la classe. Adoro scrivere, ne
sono sempre stato affascinato, è una vera e propria passione quella che ho per le parole.
Preferisco questa attività a tutte le altre perché è meditativa, riservata, ci si
prende il tempo che si vuole e si lavora da soli. Fare un film è un'attività rumorosa e
collettiva. Ci sono almeno cinquanta persone attorno e si deve decidere in fretta, perché
fare aspettare costa molto. Quando non si e contenti di quello che si è scritto, lo si
può buttar via, ma quando fai un film che non ami, devi mostrarlo lo stesso poiché ci
sono dei terzi che hanno tirato fuori milioni dalle proprie tasche. Quando si scrive non
si deve sottostare alla verifica della realtà. Nulla è mai all'altezza di ciò che hai
concepito, quando filmi ciò che hai scritto.
"Crimini e misfatti",
come "Hannah e le sue sorelle" o "Mariti e mogli" sono film più cupi rispetto ai
primi che ho realizzato. Amo il concetto di romanzo. Mi piace lavorare sullo schermo con
metodi da romanziere; ho sempre pensato, infatti, di scrivere nei miei film. Vi è nel
campo dello scrittore qualcosa che mi piace particolarmente. Anche se ogni tanto me ne
allontano, come ad esempio in "Alice", ho
sempre l'impressione di tornare su questo terreno. Mi piacciono le persone reali e le
situazioni vere: la vita così come trascorre. Si può scrivere in un romanzo ciò che
puoi fare anche in un film o viceversa. I due mezzi d'espressione sono fisicamente molto
vicini l'uno all'altro, contrariamente al teatro, che è un qualcosa di completamente
differente.
Spesso il mio pubblico identifica i personaggi che interpreto con
me stesso e ciò mi ha creato non pochi problemi: vorrei proprio che la gente non lo
facesse più. Così come non si può identificare il Chaarlie Chaplin sullo schermo con
quello della vita reale, o Buster Keaton o chiunque altro. Ci sono dei piccoli punti di
contatto ma io non sono la stessa persona sullo schermo e nella vita. Sono sicuramente
diverso e questi personaggi che interpreto non sono altro che frutto della mia
immaginazione. Anche le battute che faccio nei miei film non devono mai essere prese così
seriamente, sono solo degli scherzi. Sicuramente sono interessanti da un punto di vista
freudiano, in quanto possono rivelare qualcosa di inconscio, ma dare troppo peso alle
battute, come all'arte in generale, è sempre stato un errore. Non ho mai pensato,
infatti, che l'arte possa cambiare le cose. Acquista un senso solo quando è
intrattenimento, ma non può certo cambiare la gente o i paesi o i sistemi politici. Se
qualcuno è cattivo e crudele con te, puoi andare a casa e scrivere una bella satira
contro di lui, ma la cosa finisce lì. Se invece lo citi in giudizio o gli dai un pugno
sul naso, allora sì che hai realizzato qualcosa!
La gente ha sempre pensato di me che fossi un intellettuale; ma
non lo sono. Che sia un inetto, che sia troppo ebreo, o che non lo sia abbastanza, che sia
un perdente con le donne: sono tutte semplificazioni che ti porti dietro e talvolta ti
fanno perdere l'affetto o la fedeltà del tuo pubblico. Ad esempio dopo un film come "Stardust Memories" la gente usciva dicendo: «Oh,
è Woody Allen che dice di disprezzare il suo stesso pubblico». Ma non ero io. Stavo
raccontando una storia di finzione su un regista che è un artista (mi è capitato di
farne un regista solo perché è una situazione che conosco bene) che è depresso perché
ha tutto nella vita e tuttavia è ancora miseramente infelice. Mentre stavo girando il
film non riflettevo precisamente i miei sentimenti. Ci potranno forse essere delle
sovrapposizioni in uno o due momenti, ma era del tutto opera di finzione. Avrei dovuto
probabilmente far recitare questa parte a Dustin
Hoffman. L'ho interpretata io unicamente perché era mia abitudine recitare le parti
che scrivevo. Pensandoci dopo credo proprio che avrei dovuto far recitare questa parte a
qualcun altro: al di là di quella che avrebbe potuto essere la risposta del pubblico,
sicuramente avrebbe attenuato questo processo di identificazione; o forse non avrei dovuto
fare di quel personaggio un regista cinematografico.
La stessa cosa è capitata con "Mariti e mogli": tutti hanno creduto che fosse un
film autobiografico. La gente pensava che Mia recitasse la parte di Mia e che io
interpretassi me stesso. La verità è che ho finito la sceneggiatura, l'ho data a Mia e
le ho chiesto quale personaggio volesse interpretare. Stava per scegliere quello poi
interpretato da Judy Davis, ma poi ha deciso di fare l'altro perché era una parte meno
impegnativa e le avrebbe lasciato più tempo libero. Non è quindi un film autobiografico,
ho inventato personaggi e situazioni. "Mariti e mogli"
è uscito in un momento in cui attraversavo una crisi personale che è stata riportata
dai giornali, ma ci sono state un sacco di cose riportate dalla stampa che non erano
assolutamente vere, e il fatto che il mio film fosse autobiografico era una di quelle. È
anche per questo probabilmente che sono tentato di scomparire del tutto dai miei film.
Se cè qualche modo per disabituare la gente dall'idea che io sia il personaggio
dei miei film potrei anche andare in questa direzione. Ma credo comunque che non sarò
tanto capace a perseguire questa strada. Ho la sensazione che finirò per realizzare
solo le idee che mi piacciono e non sarò in grado di fare nient'altro. Quando un film è
finito e ne comincio uno nuovo, mi emoziona avere un'idea e se questa avrà a che fare con
me, e reciterò la parte di uno scrittore newyorkese che si innamora di una donna, e il
pubblico penserà che si tratti della mia vita, allora accetterò anche questo.
In "Manhattan" il
protagonista Isaac dice di poter vivere bene solo a New York. Questo è in parte vero.
Bisogna anche vedere quale alternativa mi si presenta e quanto tempo dovrei restare in un
altro luogo. Se sono città cosmopolite come Parigi, Londra o Stoccolma, credo che potrei
viverci per un certo periodo. Ma è sicuramente a New York che mi trovo meglio. Potrei
fare anche un film al di fuori di questa città se il soggetto lo permettesse. New York è
sempre sulla breccia; vi arriva ogni cosa qui, prima di propagarsi per il resto
dell'America. Tutto ciò che non funzionerà nella cultura americana dei prossimi anni,
già non ha funzionato a New York. Si è sempre i primi ad avere i problemi della droga,
della delinquenza, dei senzatetto. Poi allimprovviso tutta l'America si sveglia e
presta attenzione a questi problemi. Ma New York è stata la prima città ad averli.
Comunque continuo ad amarla. Tutto ciò e irrazionale. Voi amate una donna, è
un'alcolizzata, poi vi lascia, ma voi non potete impedirvi di amarla! E semplicissimo,
adoro questa città.
Ho girato "Manhattan"
in bianco e nero poiché credevo di poter meglio catturare l'essenza di questa città. Il
protagonista preferisce pensare al tempo passato che alle cose presenti che rovinano la
metropoli nei nostri giorni; Isaac rimpiange i tempi in cui New York, come la si vedeva
sulle vecchie fotografie color seppia, era semplice e romantica come la musica di
Gershwin. Il bianco e nero sottolinea anche il lato serio del film; è stupefacente come
l'assenza di colore dia a tutta l'immagine un aspetto documentaristico. Mi sono divertito
molto a filmare New York in bianco e nero. In un periodo in cui quasi tuffi i film sono a
colori, ho scelto più volte, e mi sono battuto per questo privilegio, di raccontare delle
storie con una fotografia in bianco e nero. In realtà, la differenza fra il colore e il
bianco e nero è così grande che arriva addirittura a modificare il significato di alcune
scene. Se avessi fotografato New York a colori tutte le connotazioni nostalgiche di "Manhattan" sarebbero venute meno.
Di fronte alle brutture di questa città mi sento furioso e
frustrato, ma è lo stesso tipo di frustrazione che un marito può sentire di fronte alla
propria moglie. Fremo dalla rabbia quando ammucchiano limmondizia nella mia via, o
quando senti che qualcuno è stato assassinato nel vicinato da una banda di ragazzini. Mi
sento doppiamente sconcertato, come se questo assassinio avvenisse all'interno della mia
famiglia. In "Manhattan" non attacco
New York, ma la sorgente del male. Non è un film che si accontenta di dire: «Pulite
Central Park»; ma è un film che dice: «Pulite la vostra anima senza la quale non sarete
mai capaci di pulire Central Park». Penso che la cultura popolare americana sia diventata
una specie di junk food, di "cibo predigerito". "Manhattan" è un film su ciò che capita nella
cultura americana a New York e sulla decadenza di questa cultura popolare che impedisce
alla gente di vivere amori sani e fortunati. La nostra televisione, la nostra musica, la
maggior parte dei nostri film, i nostri politici, la nostra architettura sono di un
livello alquanto mediocre. E un peccato, perché con i soldi e le conoscenze tecniche che
abbiamo, potremmo avere una cultura di élite. Ma siamo tutti quanti rincretiniti
dalle droghe, dalla televisione più stupida, dalle catene dellalimentazione veloce,
dalla nostra sessualità meccanizzata, dall'imbecillità dei nostri politici. È proprio
la cultura popolare quella che mi esaspera, ciò che ci viene presentato come geniale,
ciò che passa come divertente alla televisione, ciò che viene considerato profondo nei
film che la comunità hollywoodiana onora con le sue ricompense annuali. Il cacciatore di
Michael Cimino rappresenta un modo falso di vedere quello che è capitato in Vietnam. Non
credo infatti che siano stati i vietnamiti sadici che hanno obbligato i poveri americani a
giocare alla roulette russa, ma che siano stati gli aeroplani americani a inondare il
Vietnam del loro napalm. Non ho niente contro questo film, ma il fatto che gli abbiano
assegnato l'Oscar mi è parso tipico dell'attuale decadenza culturale degli Stati Uniti.
Sono cosciente alla fine di ogni giornata che non ci sono molti bei film da andare a
vedere, che non posso uscire con una ragazza che non sia fuori di testa o
rovinata, che non posso avere fiducia in un solo uomo politico, che non posso camminare in
una strada senza inciampare in brutture, entrare in un parco senza farmi massacrare dai
teppisti; è ridicolo che l'America sia giunta sino a questo punto e tutto ciò non capita
solo a New York ma anche a San Francisco o a Detroit. In "Manhattan" Diane Keaton rappresenta proprio il
falso pensiero intellettuale, tutto ciò che vi è di affettato e di nevrotico nell'intellighenzia
newyorkese. Pontifica innocentemente. Costruisce con il suo amante una sorta di
pantheon degli artisti sopravvalutati. In effetti in una certa cerchia di persone fa
estremamente "in" dire che Proust o Mahler sono troppo stimati. Si compila una
lista di geni, dei migliori film e ci si prende la licenza di classificare i vari artisti
e di decidere il grado d'importanza di persone che sono nettamente migliori di loro.
La mia lista di nomi è completamente differente da quella che fa
nel film Diane Keaton, poiché questa Accademia di persone sopravvalutate contiene dei
nomi che ammiro profondamente, come Norman Mailer, Heinrich Boll, Scott Fitzgerald. Adoro
tutte queste personalità. Il personaggio interpretato da Diane Keaton non menziona gli
intoccabili come Picasso, Bergman o Saul Bellow che stanno al di sopra di ogni lista. Gli
artisti che per me sono sopravvalutati sono soprattutto quei registi americani come John
Ford, Roul Walsh o Joseph Mankiewicz. Uomini di talento che hanno fatto dei film
divertenti ma che non sono certo dei maestri. Non sono né dei Bunuel né dei Renoir.
Ripenso a Cimino: è un regista di talento e con una gran padronanza del mezzo tecnico, ma
non pensa in maniera intelligente.
Durante la mia infanzia non ho mai letto tanti libri, ma andavo
spesso al cinema e i film che ho visto costituiscono tutto il mio bagaglio culturale, la
mia ispirazione, i miei referenti. Penso sempre in relazione al cinema, cosi come chi
scrive un romanzo cita altri scrittori come punto di riferimento. Ho visto tanti film e
molti ne ho amati, tanto che la mia passione per il cinema si esprime in ogni momento,
quasi inconsciamente, automaticamente. Ho amato molto La signora di Shangai di
Orson Welles, che è stato il più grande regista d'America, e ho così deciso di citarlo
nel finale del mio film "Misterioso omicidio"
a "Manhattan". Guardo soprattutto i film
europei che arrivano in America. Sono cresciuto proprio guardando i film dei migliori
registi europei. Quando ero adolescente potevo vedere dei western o dei film di gangster
ma anche La grande illusione, Ladri di biciclette o La regola del gioco.
Anche a Brooklyn, dove vivevo, vi erano a quell'epoca molti cinema che proiettavano ogni
giorno dei film stranieri. Oggi, anche a Manhattan, è molto difficile vederne. Quelli che
riesco a vedere mi piacciono molto, poiché sono in effetti i migliori che vengono
distribuiti, quelli dei Taviani, Bertolucci, Scola e quelli dei registi francesi. Amo
molto anche i diversi generi cinematografici, e mi sento meglio nel mondo del film che
nella vita reale. Passando tanto tempo al cinema è normale che questo ti capiti e credo
che tutto ciò accada a molti altri registi. Si finisce così per fare dei film sul
cinema, come Altman con I protagonisti o Scorsese con New York. Si è
cresciuti amando il cinema e poi si è diventati registi; è impossibile che esso non
finisca con l'influenzare là nostra sensibilità.
L'autore comico che amo di più è Groucho Marx: era veramente un
artista virtuoso, graffiante, cinico, irriverente, una vera e propria istituzione
americana come il baseball, un autentico maestro. Bisogna cercare di capire che
dopo la grande ondata di comici come Chaplin, Keaton, Langdon, ai quali è assolutamente
sbagliato compararmi (questi autori infatti provenivano dal cinema muto e dalla
depressione, io invece sono un prodotto della psicanalisi e della televisione), la
recitazione comica si è spostata dall'aspetto fisico a quello psicologico. Quarant'anni
fa quel che interessava gli impiegati o gli operai delle fabbriche era di vedere Buster su
una locomotiva o Chaplin alle prese con una catena di montaggio, o gli sbirri di Mack
Sennet con i loro inseguimenti. Oggi, invece, in era tecnologica, le domande non sono più
del tipo: «Potrò trovare un impiego, potrò misurarmi con le viti o i bulloni? », ma
sono invece: «Sopporterò la pressione disumana di un lavoro alienante in una società
consumistica? ». Il tutto diventa più sottile, più interiore, meno esteriore. Ingmar
Bergman ha inventato un vocabolario che permette di esprimere un dramma interiore in modo
visivo. Questo grande regista riesce infatti a visualizzare l'animo, cosa difficile da
fare all'interno della commedia. Il comico contemporaneo deve cercare di esprimersi più
mentalmente, più emozionalmente. Quando ho realizzato "Io e Annie" bisognava trovare un modo per
esteriorizzare una certa psicologia in modo cinematografico. Non è un film fisico: Diane
Keaton, quando non termina le sue frasi, lascia i gesti in sospeso, fa esattamente il
contrario di quanto avrebbe fatto Charlie Chaplin. Credo che nel cinema comico ci saranno
sempre meno clown.
All'epoca di "Prendi i soldi
e scappa" pensavo che i film comici avrebbero dovuto essere spontanei,
sconnessi, un po' confusi, ma energici come i film dei fratelli Marx. Ora bado molto a
costruire le sequenze, faccio delle inquadrature utilizzando il dolly, curo nei minimi
particolari il montaggio per mesi. Ho ormai acquisito anche una certa dose di esperienza
che mi permette di fare alcune cose che non avrei mai avuto il coraggio di fare prima. Si
ha la tendenza a diventare più arditi, poiché con gli anni si ha la sensazione di
controllare meglio ciò che si fa e ci si lascia guidare di più dall'istinto. E passo
anche le giornate a vedere quei film europei che i critici americani non amano, in cui i
personaggi passeggiano a lungo in una strada, o si siedono e mangiano.
Negli ultimi anni mi piace molto alternare film comici a film
seri. Rifiuto di pianificare la mia carriera, e voglio più che mai realizzare film
secondo la mia fantasia, senza ascoltare i consigli o le pretese degli altri su quello che
deve essere il vero Woody Allen.
Alcune volte finisco un film e mi metto a lavorare su una nuova
idea. Altre volte mi dico, in reazione al film precedente: «Dio, ho passato un anno della
mia vita su un film serio, o al contrario troppo strambo, cambiamo un po'». Dopo
luscita di "Io e Annie", un film
leggero, definito il miglior film dell'anno in America, ho realizzato "Interiors" per reazione deliberata, non volendo fare
lo stesso tipo di film; realizzarlo è stata un'esperienza straordinaria. Sono stato
affascinato dal modo in cui è stato accolto dal pubblico internazionale, anche se non
assomiglia assolutamente a un classico film americano; qui la psicologia eclissa l'azione.
Amo fare film di solo humour, ma la morte e la metafisica si inseriscono in tutto quello
che faccio. Quando vedo Personar di Bergman mi accorgo che è un film perfetto: due
donne, una parla e l'altra sta zitta. E una situazione semplice ma al contempo complessa.
Bisognerebbe riuscire a costruire queste situazioni anche nella commedia. Certe domande
metafisiche hanno anche fare con la struttura autentica della vita di ognuno di noi;
siamo immersi in tutto ciò dal giorno in cui nasciamo. Credo che nella vita reale la
gente si crei ogni genere di ossessioni nevrotiche per non doversi confrontare con
questioni più vaste. Se il tuo problema è unicamente trovare il cibo per la cena, non
hai certo il tempo per sederti e riflettere sullo scopo della vita e sul contenuto
dell'esistenza, perché hai un problema più pressante. Ma quando questi sono risolti,
allora cominci a pensare: «Gesù, che significa tutto questo, che scopo ha? Ho questo, e
allora che accade? Sono più anziano, la vita è breve e non sembra avere un grande
scopo». Cominci a pensare a tutte queste cose, ma poi se qualcuno strilla: «Al fuoco! »
e il palazzo è in fiamme, tutti i tuoi pensieri svaniscono. Penso che sia importante per
la gente nel suo sacrificio quotidiano, di cui ha bisogno per sopravvivere di crearsi
piccoli e stupidi problemi per non doversi confrontare con quelli più grandi che sono
pericolosi, irrisolvibili e deprimenti.
È molto difficile essere seri in un film comico; il pubblico
vuole solo ridere. Ma per "Interiors" mi
sono detto che se avessi fatto un film completamente serio non avrei poi più dovuto
nascondermi dietro alla gag e che sarebbe stata per me un'esperienza medita e
stimolante. Tutti i miei primi film erano dei divertissement, dei diversivi. La slapstick
era diventata per me una sorta di vicolo cieco. Mi diverto ancora molto oggi a vedere
i mediometraggi di Chaplin o di Mack Sennet, ma per quel che concerne la comica sfrenata
ha come unico interesse quello di sapere se è possibile ridere per un'ora e mezza, ed io
so di esserne in grado. E difficile essere seri e comici nello stesso tempo, bisogna
scegliere fra le due soluzioni. Gli stessi Charlie Chaplin o Jerry Lewis si preoccupavano
innanzi tuffo di essere comici, poi si fermavano decisamente nel momento di maggior
divertimento per introdurre dei momenti romantici o degli spaccati umanitari, per poi
ritornare alla farsa. Chaplin è riuscito ad unire questi due diversi aspetti solo in
pochi casi nella sua carriera, come ad esempio in Luci della città o nella Febbre
delloro.
In realtà non si ottiene alla fine un gran rispetto dal pubblico
se lo si fa solo ridere. Ci sono dei contenuti che si possono manifestare solo in un film
serio. in "Interiors" sono riuscito ad
esprimermi più liberamente che nei miei film comici. In questi ultimi infatti il pubblico
si ferma ad unattenzione più superficiale, mentre nei film drammatici assorbe i
contenuti in modo più profondo, in tutti i suoi livelli di comprensione. In teoria è
più difficile realizzare una commedia che un dramma, ma per far ridere bisogna comunque
avere una capacità innata. Gli autori più ambiziosi hanno sempre desiderato realizzare
film comici, ma non sapevano bene come riuscirci. Ci vuole un talento particolare,
paradossale, che un O'Neil, un Arthur Miller non hanno mai avuto. Quando si vede ciò che
fa ridere Arthur Miller o che diverte Ingmar Bergman, si capisce che si deve avere un dono
innato per poter realizzare delle commedie. Al contrario, un comico può fare un film
molto serio. Certamente dovrà lavorare tutta una vita per raggiungere un livello come
quello di Bergman, ma ne vale sicuramente la pena provarci dal momento che l'opposto è
impensabile.
Il mio sogno nel cassetto è un film sul jazz. La difficoltà a
realizzarlo consiste nel fatto che sarebbe un film molto costoso, perché parlerebbe della
nascita del jazz a New Orleans. Ci vorrebbe quindi una ricostruzione di questo periodo,
così come per Chicago e New York. Oltre a ciò l'uso di musiche preregistrate aumenta
considerevolmente la somma di denaro da utilizzare per la sua realizzazione. Ma e
sicuramente una bella idea e se qualche casa di produzione si mostrasse disponibile a
mettere i soldi non esiterei un momento a realizzarlo. Credo che potrebbe avere un
successo internazionale. Non penso che sarebbe solo una commedia, ma soprattutto un film
sulla musica e sull'affetto che provo per questa forma d'arte.
Mi considero una persona privilegiata. Lavoro come un
indipendente, senza dover rendere conto a nessuno. Se un'idea mi colpisce come un inizio
interessante per un film, mi metto subito al lavoro con un piccolo gruppo di
collaboratori, senza suscitare troppa curiosità, e se sbaglio una scena posso rifarla
senza causare un dramma. E per questo che vivo a New York e che ci resterò sempre.
A cura di Stefano Boni e Enrico Vincenti.
Le dichiarazioni di Woody Allen
sono state tratte dalle seguenti interviste:
Deux entretiens avec Woody Allen. Sur Interiors, sur Manhattan,
a cura di Robert Benayoun in «Positif», n. 222, settembre 1979.
Entretien avec Woody Allen, a cura di Robert Benayoun, in
«Positif», n. 279, maggio 1984.
Vraies couleurs, a cura di Woody Allen, in «Positif», n.
348, febbraio 1990.
Entretien avec Woody Allen, a cura di Stig Bjorkman, in
«Cahiers du cinéma», n. 462, dicembre 1992.
Entretien avec Woody Allen, a cura di Thierry Jousse e
Frédéric Strauss, in «Cahiers du cinéma», n.472, ottobre 1993.
Shelter from the Storm, a cura di Jonathan Romney, in
«Sight & Sound», vol. 4, n. 2, febbraio 1994.
Entretien avec Woody Allen: mes héros ne viennet pas de la vie mais de
leur mythologie, a cura di Michel Ciment e Yann Tobin, in «Positif», n. 408,
febbraio 1995.
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